Due anni in uno, ciao 2020

Mi sembra di avere vissuto due anni in questo 2020, due anni dentro un anno solo, che non corrispondono al numero dei mesi ma a quello che hai vissuto.

Prima della pandemia, prima di marzo, l’anno iniziato, seppur con ottimi propositi, era semplicemente un prolungamento di quello precedente. Stesse situazioni, stesse persone, stesso approccio alla vita. Poi, l’inaspettato: la pandemia, il lockdown e la vita che cambia. Anzi cambio io. Il male mi sbatte proprio in faccia, come un cazzotto in pieno viso che non ti aspettavi e che non hai il tempo di schivare. Sono rimasta al tappeto per un po’. Silenzio. Ne ho voluto un bel po’, per capire come rimettere insieme i cocci di un periodo che mi sembrava l’esatto significato della parola macerie. Non era il tempo per sistemare tutto e per una volta l’ho compreso. Non ho avuto la solita mia smania di mettere tutto a posto, di sistemare ciò che non si poteva sistemare, di fingere e ostentare una felicità che non c’era. Questa volta per me era basta fingere, basta dare spiegazioni, basta rispondere alle domande degli altri solo per soddisfare curiosità altrui.

Io e basta. Con un periodo gigante e il silenzio delle strade deserte, delle saracinesche abbassate, di famiglie chiuse in casa con il rischio che l’odio potesse trasformarsi in tragedie. Tempo per me. Tempo di empatia. Che ho sempre avuto ma che ho sentito più forte. Per chiunque. Tutta la sofferenza sentita in quel periodo non la scorderò mai. La mia, certo, ma anche quella data dalle storie altrui. Ognuna diversa.

Poi quella sensazione: limite. Quando senti che più dolore di così non puoi contenere. E tutto diventa superfluo, ingombrante, fastidioso. Scopro che una gabbia può essere tale anche se dorata. Scopro di aver bisogno di ancora meno gente per sentirmi bene. Scopro di aver sempre avuto tempo per ascoltare tutti, per comprendere tutti, per supportare tutti, per aiutare tutti. Ma che quelle stesse persone non l’hanno fatto con me. Scopro di amare il mio lavoro ma di avere una voglia incredibile di impararne altri dieci. Scopro che i Social mi fanno stare male, per quello che vedo, per quello che cerco, per quello che leggo. Così li ho tolti, all’inizio sembrava stranissimo, ad oggi dopo mesi sto bene, non mi mancano. Scopro che la vita umile che ho sempre fatto è perfino troppa e che per vivere abbiamo bisogno davvero di pochissimo. E che perfino quel poco che abbiamo se lo dividiamo in due, o in tre, può essere la felicità di molti. Scopro che non voglio più pensare a cosa sarebbe successo se o a come sarebbe andata altrimenti. Non posso tornare indietro, anche se a volte lo vorrei tantissimo, per infinite situazioni. Ho capito che il tempo che spreco a pensare a come sarebbe andata ieri se avessi fatto altre scelte lo tolgo all’oggi, e quindi al domani. Ed io voglio costruire qualcosa di migliore, oggi. Ho scoperto, però, che anche il domani non è poi così amico. Perché per quanto progetti qualcosa per il domani la vita ti riserverà sempre sorprese, belle o brutte che siano, ti stravolgerà tutto. Ho capito che il tempo che spreco pensando a come andrà domani lo tolgo ancora all’oggi, insieme alla salute che l’ansia si porta via. E la salute e la cosa che diamo più per scontata a questo mondo, ma è anche quella che ti riserva più sorprese, amare, quando meno te l’aspetti. Ho scoperto anche questo. No, non ne vale la pena perdere tempo e salute per qualcosa che ancora non c’è. Oggi, voglio dedicarmi all’oggi. L’oggi per ogni giorno.

Quando è finito il primo lockdown ho scoperto che tutte le belle parole della società, del “sarà tutto diverso”, erano una gran fregatura. Chi era abituato ad odiare ha continuato a farlo. Chi sprecava soldi in robe inutili invece di aiutare gli altri ha continuato a farlo. Chi aveva sprecato tempo a non dire un ti voglio bene ha continuato a non dirne. Tutto era uguale. Anche la maleducazione per le strade, le guerre sui social, i tradimenti al prossimo, le assenze ingiustificate. Il mondo era rimasto uguale ma ero cambiata io. Così ho scoperto ancora nuove cose. Ho scoperto che non mi interessa quasi di nulla e scopro di aver finto per troppo tempo a fare e dire ciò che non volevo solo per compiacere gli altri, per farmi accettare, per farmi volere bene.

Aprile, chi se lo scorda. La pandemia mi ha cambiata, nel profondo. Ricordo di aver preso una valigia grandissima e di averci messo dentro tutto quello che era stata la mia vita prima di quel momento: persone, abitudini, fatti. Ho messo dentro, chiuso in maniera ermetica e spedito. Dove non mi riguarda, ma il più lontano possibile da me. Sono passati mesi e da quel momento mi sembra di vivere un’altra vita. E’ stato quello il vero Capodanno, il vero inizio d’anno. O forse di una vita.

Ho lavorato tanto su me stessa e sulla mia vita da maggio ad oggi. Da maggio, quando ho iniziato a sistemare i cocci dello tsunami che si era abbattuto. Prima di riceverne un altro, subito dopo l’estate. Perché la vita è così, non fai in tempo a sistemare qualcosa, che un’altra è pronta a colpirti. Io, forse, oggi sono io come non lo sono mai stata. Sono io, proprio io, me lo sento dentro dopo essermi sentita per tutta la vita nel mondo sbagliato. Era maggio quando mi sono detta piacere di conoscerti e mi sono scoperta.

Non ricordo più nessuno di quelli che c’erano prima. È capitato, raramente, di avere il pensiero verso qualcuno. Magari un angolo di città, un’abitudine, un’immagine che te li ricordano. Ci ho pensato, ma poi è passato. Ed è stato facile allontanarli. Facile come non lo era mai stato. Nessun dramma, nessun cuore che brucia, nessun dolore al petto, nessun vuoto dentro. Ho scoperto che il tempo sprecato in paranoie e discussioni altrui lo posso regalare a me, ed è bellissimo. Mi sono chiesta se fossi in grado di perdonare i torti altrui e la risposta è stata no. L’ho fatto tante volte nella vita. Ma la verità è che, se l’avessi fatto ancora, avrei fatto una violenza su me stessa. Non sono più arrabbiata con nessuno, ed anche questo è stato un grande passo. Ecco, è questa la differenza. Ho perdonato, dentro di me, perché era la condizione primaria per poter andare avanti. Il rancore, la rabbia, la delusione danneggiano noi stessi. Così come il voler a tutti costi sistemare qualcosa che non si può sistemare o cercare risposte che non sempre ci sono. Ho perdonato ma non ho dimenticato, per questo non potrei più riaprire porte. Ho perdonato per me, non per ricominciare o guardare dalle fessure di quelle porte. Mi sembra tutto così lontano ciò che ho vissuto, così diverso, così non adatto a me. Qualcuno dalla valigia di maggio l’ho salvato. Pochi, che in quel momento lo meritavano. Me l’hanno dimostrato quando non me l’aspettavo, quando non ci speravo, quando non erano obbligati. Sono con me e li custodisco nel privato che ho riscoperto. Non mi chiedo più se ci saranno domani, e nel fondo delle delusioni della vita, mi meraviglio per ogni nuovo giorno in cui riusciamo a salvarci.

Alla fine di questo 2020 così strano, così surreale, così forte e fragile, così veloce e lento, ci sono io. Con la mia nuova vita, con le mie nuove abitudini, i miei progetti, i miei successi e le mie cadute. Perché ci sono sempre ma ho imparato ad accettarle, a non ostentare che va tutto bene quando qualcosa non va solo perché gli altri non sono pronti ad una vita pesante. Perché la mia lo è, lo è sempre stata e forse sempre lo sarà. Non lo scegli, ti capita. Ma forse c’è un motivo per tutto ed io voglio pensare che tante battaglie sono state mandate a me perché ho avuto la forza di affrontarle invece che a persone più fragili che, forse, non ce l’avrebbero fatta. Però ad oggi è questa la differenza. La mia malinconia non la nascondo più, i miei silenzi non li riempio ad ogni costo, le mie fragilità non le cambio più. Il mio passato non è qualcosa che devo provare a cancellare. C’è e ci sarà sempre ed io non mi massacro più provando a diventare chi non sono. Sono io e sono questo e tanto altro. Ma mai più sarò diversa da ciò che sono.

Non credo più al Capodanno e al cambiamento di giorno 1 gennaio. Arriverà com’è arrivato ad aprile 2020. Un mese qualunque del 2021, un giorno qualunque di questo nuovo anno che verrà e che io, spero con tutto il cuore, possa essere almeno una briciola meglio di quello passato. Sono pronta!

Ah dimenticavo, tra i progetti c’è quello di curare questo blog come vorrei. Di scriverci dentro tanto e di tutto. Ma il tempo è poco e le giornate volano via. Intanto inizio da Capodanno, chissà che porti bene!

Mormora, la gente mormora

19 Ottobre 2020

Crescere interiormente significa anche rendersi conto, e accettare, che il mondo non possiamo cambiarlo tutto noi. Che c’è una parte marcia e tale resterà. Che la cattiveria è dentro alcune persone e non puoi sperare che diventino buone. Il bene e il male c’è in ognuno, fa parte dell’essere umano. E’ un’estrema lotta in tutti. Ma in alcuni emerge la parte buona, in altri invece quella cattiva prende il sopravvento.

E’ la vita. E’ la storia dell’uomo. Ma se non possiamo cambiare il mondo possiamo però cambiare noi stessi. Il nostro modo di approcciarci alle cose, di viverle, di prenderne consapevolezza. Dobbiamo imparare a pesare il nostro malessere in base a quanto valgono le persone. Inutile dire che non vogliamo stare male, dare peso a nulla. E’ impossibile. Abbiamo il diritto di stare male, al massimo, per la nostra famiglia, per un fidanzato, per un amico caro. Ma non oltre.

Una volta stavo male per tutti. Mia nonna quando ero piccola mi diceva: “Non puoi stare male per tutti i mali del mondo”. Così è stato. Stavo male quando gli altri stavano male. Stavo male per le ingiustizie. Anche se ciò non mi riguardava in prima persona. Poi stavo male anche per le mie di ingiustizie, per il mio di dolore, per la mia di vita. Per il pensiero di tutti, l’opinione di ognuno, il giudizio dei tanti. E allora diventava tutto troppo grande.

Stavo male anche per la persona sconosciuta che sparlava di me. Che si prendeva il diritto di dire di conoscermi, di sapere cose di me. Necessario, a loro, per riempire il vuoto che li attorniava. Necessario a loro per non fare i conti con i propri fallimenti. Necessario a loro, ma non a me. Così, se prima quelle cose dette sulla mia persona mi davano il tormento, oggi passo avanti. Quelle cose sulla mia persona che, quasi sempre, non solo non sono vere, ma sono anche quanto di più possibile distanti da me. Da ciò che ero. Che sono. Dalla mia realtà.

Col tempo ho capito che gli altri diventano importanti se noi gli diamo importanza. Che gli altri possono farci stare male se noi gli diamo il potere di farlo. Io, oggi, questo potere non lo do più a nessuno.

Stalking, non sopportate. Parlatene

6 Settembre 2020

Oggi vorrei raccontare qualcosa che mi riguarda anche se decidermi a farlo non è stato facile. Però qualcuno mi ha detto che fare rumore è sempre meglio di restare in silenzio. Inoltre, forse, posso anche essere utile ad altre donne affinché magari non perdano tutto il tempo che ho perso io e trovino prima il coraggio di raccontare una situazione non normale. Da ormai 8 mesi sono stata vittima di stalking e, mentre scrivo il numero 8, mi sembra assurdo che sia passato così tanto tempo senza che io riuscissi a fare nulla. Però è così. Ho sottovalutato la cosa. Me la sono tenuta per me, perché non volevo coinvolgere le persone a me care ma anche perché, inconsapevolmente, cercavo le colpe di quello che stava accadendo. Quando ho trovato il coraggio di raccontare tutto avevo paura di sentirmi dire che forse stavo esagerando, invece mi sono sentita dire che stavo perdendo tempo e che le cose sarebbero potute degenerare. Prima di riuscire a raccontare tutto quello che ho vissuto in questi mesi alle mie più care amiche i mesi sono diventati 8 e, credo, mi porterò dietro più il loro sguardo sconvolto dal non averglielo detto prima che quello per la storia in sé. Ne avrò parlato, ad occhio e croce, con un amico e mia madre, ostentando sempre la massima serenità e omettendo tutto quello che avrebbe potuto farli preoccupare troppo. A ripensarci non condivido come ho affrontato la cosa, ma è sempre molto facile guardare a posteriori. Così com’è facile giudicare dall’esterno gli altri, ma la verità è che solo noi possiamo capire cosa ci sta succedendo. Io sono sempre stata una “dalla parte delle donne”, una che le invitava a reagire e a farsi sentire, e sono stata la prima a farlo quando chi mi ha messa al mondo non era esattamente il principe azzurro che ogni figlia meriterebbe. Sono cresciuta con l’insegnamento costante che una donna vale sempre meno di un uomo, che l’unico modo per risolvere le cose sono le mani addosso, che una donna non deve lavorare ma solo obbedire all’uomo, e altre cose simili. Sono cresciuta come una ribelle e mi piaceva sfidare chi mi ha messo al mondo, anche quando sapevo che le conseguenze sarebbero state amare. Quando tutti i bambini avevano il sogno di diventare astronauti e dottori, io sognavo solo di allontanarmi dalla mia famiglia e di lavorare, essere indipendente. Per questo a 14 anni iniziavo a fare la babysitter di nascosto e mettere da parte tutto ciò che potevo. La mia indipendenza è sempre stata la mia forza, ma lo è sempre stata anche la mia solitudine. Perché quando ero piccola e cercavo aiuto negli altri non lo trovavo mai. La mia era una famiglia “all’antica”, quindi i panni sporchi si lavano in famiglia e il marito/padre te lo tieni qualsiasi cosa faccia. Quando io e mia madre abbiamo deciso il momento di dire basta ci siamo ritrovate completamente sole, ma è stato li che ho deciso che non avrei mai più permesso ad un uomo di dirmi cosa fare, chi ero, quanto valevo e condizionarmi. Ho sempre avuto il coraggio di intraprendere tutte le battaglie che servivano per stare bene io e mia madre, anche le più difficili, non ho mai avuto paura né di lui né di altri uomini della mia famiglia e pensavo di essere invincibile. Non ho mai voluto una famiglia mia perché avevo paura di perdere la mia libertà. E tutti i miei rapporti di coppia sono stati condizionati dal mio passato. Ma proprio per aver affrontato ogni situazione da sola, e aver scoperto di non aver bisogno di nessuno, pensavo sarebbe andata sempre così. La verità, però, è che nessuno è invincibile, e ci sono delle situazioni in cui solo chiedendo aiuto si può trovare una soluzione. Ho impiegato più di 8 mesi per capirlo perché, pur avendone passate tante con gli uomini, una situazione del genere si è rivelata totalmente nuova e ingestibile per me. La verità è che mi sembrava tutto così assurdo da non comprenderne la gravità e ripetevo ogni giorno a me stessa che tanto sarebbe finita prima o poi. Intanto uno sconosciuto, visto 4 volte in due anni per motivi tutt’altro che personali, sfogava la sua follia nei miei confronti. Io di mio do poca, pochissima confidenza a chiunque. In 28 anni ho amato poche, pochissime volte, e quelle poche volte è stato solo per Amore. Ho poi frequentato qualcuno, certamente, ma ho sempre capito in breve tempo che non sarebbe nato nulla. In questo caso, però, non c’è stata nemmeno quella fase, della frequentazione. Non c’è stata una storia né un percorso che potesse diventarlo. Per questo mai, mai, mi sarei potuta immaginare che un uomo con cui non c’è mai stato nulla, potesse ossessionarsi per qualcuno. All’inizio pensavo la cosa passasse, ma invece tutto peggiorava soltanto. Pur avendo sempre messo in chiaro la situazione in molte occasioni, ed aver ripetuto che mai sarebbe potuto accadere qualcosa, nella sua mente si costruiva una realtà parallela nella quale io mi sono ritrovata senza deciderlo. Le citofonate impazzite a qualsiasi orario, le ossessioni scritte in ogni forma, gli appostamenti sotto casa sono solo alcune delle cose passate. Tutto è stato condizionante: l’ansia di dover uscire da casa o di dover rientrare; i numeri sconosciuti a cui non sapere se rispondere nelle chiamate; nuovi contatti social sempre pronti a trovare modi per comunicare; pacchi lasciati sotto casa che non sai mai se aprire; cuore sobbalzato ad ogni colpo di citofono e molto altro. Mi sono ripetuta spesso che forse non era così grave, che qualcuno con cui non hai condiviso nulla non può fissarsi così. Mi sono chiesta spesso dove avessi sbagliato, cosa avessi detto o fatto per arrivare qui. Nel frattempo il tempo passava ed io perdevo concentrazione, lucidità, calma. La prima persona a cui ho raccontato tutto è stata mia madre, anche se avrei voluto risparmiargli questa ennesima ansia in una vita, come la nostra, che ne ha sempre dovuta respirare tanta. Ma è stato inevitabile, vivendo insieme. Ovviamente, come ogni persona esterna a me, si è resa conto prima di me di quello che stava succedendo e mi ha intimato di procedere con azioni forti. Ma non mi ha obbligata a farlo quando mi ha vista smarrita e confusa. Forse ha compreso la mia stanchezza nel dover affrontare un’ennesima situazione “forte” o, semplicemente, ha aspettato che capissi da sola. Ad un certo punto, dopo alcune situazioni fuori controllo, ho capito che la situazione era davvero precipitata e dovevo agire. Adesso mi affido a chi di dovere, e so che le cose torneranno al loro posto. Ho trovato solo persone che hanno capito tutto e ne sono grata. Tutte le mie paure di giudizi e nasi storti non si sono mai verificate ed è proprio vero che quando cresci in un certo ambiente ti porterai insicurezze per sempre. Non so dire cosa sia successo che non mi abbia fatto parlare al tempo giusto, ma quello che voglio dire è che le persone si approfittano quando ti vedono “sola”, perché pensano di poterti condizionare più facilmente. Quindi parlatene, parlatene sempre. Non abbiamo colpe di ciò che fanno gli altri, e non dobbiamo vergognarci noi per i loro comportamenti. Da soli siamo forti ma per salvarci a volte abbiamo bisogno degli altri.

A Tutta Scrittura

Quando ho iniziato questo progetto di scrittura, quasi per gioco, non sapevo ancora che sarebbe diventato un contenitore ma anche un contenuto. Un quaderno dove mettere la mia vita e quella degli altri. Perchè, se è vero che per scrivere prendo spesso ispirazione dalla mia vita, col tempo ho imparato a guardarmi attorno, ad osservare le persone e a scriverne i tratti. Sono in giro, osservo e prendo nota. E non c’è cosa più bella. Perchè loro non sanno che senza fare niente, quando mi manca l’ispirazione, mi basta osservarli per strada, o farci due chiacchiere, per averne di nuova.

Lo sport ti salva

Lo sport ti salva. Ecco tutto.
Non è per tutti uguale e, forse, non è nemmeno per tutti. Però intanto lui se bussi ti risponde sempre. Se vuoi conoscerlo lo trovi pronto. Lui c’è, e se impari a capirlo, se scopri tutto quello che può darti, e se comprendi quale delle sue mille sfaccettature può essere quella adatta a te, allora sei salvo.

Quando dico che lo sport, forse, non è nemmeno per tutti lo penso davvero. Questo perché lo sport, qualunque esso sia, per essere sport nella vera forma, nell’essenza più vera del termine, ti deve entrare dentro.
Lo sport non può essere qualcosa che fai soltanto per la forma fisica. Lo sport non può essere solo qualcosa che fai quando sei a dieta. Lo sport non può essere fissazione per un particolare addominale scolpito e basta. Oggi si sente dire spesso tutto questo. Ma quello non è il senso vero dello sport. Lo sport è vero quando ti dà di più.

Ci sono delle storie fantastiche legate allo sport. È un po’ di tempo che, in base alla mia esperienza, ho voluto sentirne tante altre. Per capire se ci fossero storie simili. Per capire se fosse stato possibile trovare negli altri la stessa cosa che era successa a me e se le storie degli altri avrebbero potuto darmi degli spunti per scrivere di più. Così è successo.

Ho sentito di persone che sono state salvate dallo sport. Forse anche io sono una di quelle. Quando dico che lo sport ti salva non intendo aumentare il valore della frase o non dargli il giusto peso, ma intendo esattamente quello che dico. Che ti salva. Che ti trascina via da quei periodi in cui non vedi la luce. Che ti tira via da quei periodi in cui sei fermo. Che ti aiuta a vedere una soluzione laddove tu non riesci a vederla. Che ti aiuta a buttare fuori un po’ di tutto quello che hai dentro e che forse, per il periodo o per il carattere, non riesci a fare uscire.
Lo sport può anche aiutarti a conoscerti. Ti mostra una persona che non credevi di essere. Ti aiuta anche a superare i tuoi limiti e ti spinge ad un punto massimo in cui non credevi minimamente di potere arrivare.

Poi c’è tutto il contorno, che è piccolo ma altrettanto importante: conoscere persone nuove, regalarti ore di leggerezza e di spensieratezza.
Lo sport può anche insegnarti metodi che poi puoi applicare nella vita di tutti i giorni, come gestire meglio i problemi e i pensieri. Ma c’è anche altro. Ti toglie vizi sbagliati. Molta gente, grazie allo sport, sfogandosi, ha smesso di fumare, di mangiarsi le unghie, è riuscita a superare problemi alimentari o quelli legati all’alcool. E molto altro.

C’è, poi, una cosa fondamentale, che riguarda chi ti può insegnare lo sport. Perché, anche se puoi essere un autodidatta, per comprendere appieno una disciplina, quella che scegli, quella che incontri sul tuo cammino, quella che ti incuriosisce, quella che ti sembra adatta a te, scegli una guida. E questa cosa è fondamentale. Perché se non entri in empatia con il tuo insegnante, se non è una persona che stimi, se non è qualcuno che ti trasmette qualcosa il lavoro vale nulla. Non deve essere una persona che temi, con cui stai in soggezione. Deve essere una persona che senti al pari di te, ma anche una persona che quando la guardi pensi “ho da apprendere da te”.

Io credo che senza lo sport non sarei neanche dove sono. Probabilmente non sarei nemmeno chi sono. È tatuato sulla mia pelle e, soprattutto, dentro di me.
Come sempre, come le cose più importanti, non riusciamo mai a parlarne facilmente, né a fare capire la reale importanza che hanno per noi. Se ci riflettiamo, e non so se questa sia una cosa che riguarda tutti o soltanto i caratteri più introversi, siamo portati a parlare più facilmente di cose semplici e meno importanti. Mentre quando si tratta di parlare delle parti più vere di noi scappiamo a gambe levate. Anche se, forse, non c’è nemmeno bisogno di raccontarle. Perché sono quelle cose nostre, che bastano a noi stessi, e che non sentiamo nemmeno l’esigenza che gli altri le sappiano. Però la vita mi ha insegnato una cosa importante: le nostre storie possono aiutare gli altri. A volte possiamo fungere davvero da esempio e da spunto.

Ho conosciuto tante storie. Ho conosciuto tante persone. Le ho ascoltate. E sono come me.
Io senza lo sport non sarei chi sono. E quando mi sento smarrita, quando mi dimentico ancora una volta chi sono lui c’è.
Sì, ho la scrittura. Però la scrittura è un’arte. Astratta. E come tutte le arti astratte non è sempre a tua disposizione. Chi scrive è una sorta di artista. Ha bisogno della creatività. È come un pittore, che a volte non riesce a dipingere e va in crisi. Cosi anche chi scrive. Nei momenti di smarrimento perfino la scrittura può non aiutarti. Ci sono i famosi blocchi dello scrittore, i periodi no, i momenti in cui ti manca l’ispirazione. Molte volte scrivere è una fatica perché poi, come tutti i lavori mentali, è al pari o ancora più stancante di quelli fisici e manuali. Ecco, quando io ho questi momenti, l’unica cosa che mi salva, l’unica che mi aiuta a ricominciare dal punto in cui ho interrotto, è lo sport.

Io mi ricordo benissimo chi ero prima di adesso. Quando rivedo me stessa, nel mio passato, a volte vedo una persona che non riconosco, una persona che mi è difficile accettare che sia un’altra parte di me. Non so dire se io sia tutte e due ed una parte non mi va di guardarla perché mi fa soffrire. Oppure se sono soltanto quella di adesso e guardare quella di prima non mi fa stare bene perché la vedo un’estranea. Questo riguarda tantissime cose, tanti momenti affrontati nella vita. E riguarda anche lo sport. Perché io sono cresciuta con uno sport che pensavo essere il mio. La danza. Che ha fatto parte della mia vita per tantissimi anni. Ed era la cosa più importante che avessi.
Ricordo quando ero a scuola, non riuscivo a seguire molto le lezioni. Perché guardavo l’orologio e non vedevo l’ora che fosse l’ora di andare a danza. Ricordo che, se tutti il pomeriggio desideravano riunirsi, io volevo andare a danza. Ricordo la prima volta che ho preso un aereo. La prima volta che ho fatto un viaggio dedicato alla danza. E mi sentivo importante, perché mi sembrava un passo in più per potermelo ritrovare nel mio futuro. Per quello sport, che pensavo fosse cucito su misura per me, ho fatto un sacco di sacrifici. Ho sacrificato tempo, denaro, energie, rapporti umani. Ed ho fatto delle cose che, guardandomi indietro, mi vedo un po’ folle. Anche perché mi rendo conto che ero molto piccola. E quindi guardare quella bambina, quella ragazzina, fare quelle follie per quello sport che amava, mi fa sorridere ma mi fa anche notare quanta forza aveva già quella ragazzina, anche senza la consapevolezza di adesso. Quello sport mi ha fatto bene ma mi ha fatto anche molto soffrire. Perché per portarlo avanti dovevo sempre lottare contro tutti, perché le persone più importanti della mia vita non lo vedevano bene e allora era una continua lotta. Ad un certo punto arriva all’improvviso un colpo della vita. E li devi scegliere. Capisci che devi smettere, che non può andare, che hai altre responsabilità, che non puoi più farlo. E chiudi. Chiudi definitivamente perchè, quando una cosa ha un’importanza grande ed è un pezzo fondamentale di te, non puoi tenerlo “tanto per”, come se fosse una cosa qualunque. Ti farebbe più male. Capisci che devi fermarti. Appendi le scarpe al chiodo, come un calciatore.
Cosa succede in questi casi? Mentre chi non ha mai fatto sport, o ne ha fatto poco, se smette non si accorge della differenza, chi ha sempre fatto sport subisce un trauma. Sia al corpo che alla mente. Io ricordo benissimo il mio trauma perché, tra i tanti sintomi, non riuscivo più a ballare. Ricordo che andavo alle feste di compleanno e stavo immobile. Ricordo che non andavo in discoteca. E soprattutto ricordo che non appena c’era la musica scappavo a gambe levate. Ricordo che la cosa che mi faceva soffrire di più, ieri come oggi, erano quelli che volevano che superassi questo trauma per forza. E negli anni è successo spesso. La gente si sente padrona della vita degli altri. Ci sono quelli che per forza ti devono buttare in pista o trascinarti a ballare. Ecco queste sono le persone peggiori. Quelle che, senza nessun criterio, e senza conoscerti a sufficienza, vogliono trasformare il tuo percorso. Che invece devi capire e affrontare da solo.

La prima volta, e forse anche l’unica, che sono riuscita a muovere un passo è stato qualche anno fa con quello che per me è stato un amore importante. Ricordo che anche lui non muoveva un passo e non ballava mai, e questa cosa mi consolava perché sapevo che non mi avrebbe mai portata a ballare né mi avrebbe spinta. Anche se, probabilmente, non l’avrebbe fatto ugualmente. Ricordo che, dopo un periodo difficile tra noi, c’eravamo ritrovati da poco, e fece una piccola follia. Nemmeno pensò al fatto che io non ballassi più e, in maniera del tutto spontanea, mise sul cellulare una canzone mentre eravamo in una piazza. Lui, un uomo tutto d’un pezzo, mentre la gente passava e ci guardava, mi disse “balli con me?”
Nonostante un lento non ci voglia granché per ballarlo, e si trattasse di un semplice dondolio, per me fu comunque molto emozionante.

Dopo questo trauma del passato io pensavo che non ci potesse essere più uno sport per me. Poi, quando il corpo comincia a cambiare e la mente anche, e cominci a stare male, decidi di provare. Allora ricordo che provai mille palestre e mille sale ma non mi piaceva nulla. Mi annoiavo, o non mi sentivo a mio agio. Poi, quando avevo dato tutto per perso, un giorno sono arrivata in una palestra, ho visto un’insegnante, ho provato una nuova disciplina. Ho visto un sacco e dei guanti e lì ho sentito qualcosa. Ricordo quest’insegnante, con gli occhi che parlavano. Che poi negli anni avrei scoperto essere molto simile a me: non parla tanto, non abbraccia molto. Però ti parla con gli occhi. Ha gli occhi buoni. Sorride anche quando non se ne accorge. Nonostante fosse qualcuno con cui chiacchieravo poco, in realtà ci chiacchiero poco anche oggi, è stata una persona che a me ha dato tantissimo. Ci sono voluti un paio di anni prima che riuscissi a dirglielo, è un’abitudine recente. Perché poi ad un certo punto capisci che nella vita il tempo non è ai nostri comodi, e che se sentiamo di dover dire qualcosa a qualcuno non dobbiamo rimandare, dobbiamo dirglielo.

Io ricordo che, essendo una di quelle ragazze molto introverse, all’inizio non pensavo mai di riuscire a colpire quel sacco neanche con un mignolo. Per questo mi mettevo sempre in ultima fila, e forse lo ricorda anche lei. Ricordo molto imbarazzo e molto impaccio. Però col tempo la cosa che mi colpiva era la voglia di andare, di non saltare una lezione. Stavo riprovando quelle sensazioni del passato ma in maniera molto più forte. Lì ho cominciato a sentirmi davvero me stessa.
All’inizio non riuscivo a colpire quel sacco in maniera precisa e con la giusta intenzione. Avrei voluto ma non ci riuscivo. Dopo qualche mese o settimana, la mia insegnante vedendomi sempre in disparte e in silenzio mi disse: “Se tu vuoi riuscire a fare questa cosa devi immaginarti che questo sacco sia qualcuno che ti ha fatto stare male, o il tuo problema della giornata, o quello che in questo momento non sta andando nella tua vita. Tu cosa faresti con questa persona? La prenderesti a pugni. Ma nella vita normale non puoi farlo, perché ti arrestano e perché la violenza non si usa, però qui puoi farlo“.
Quel giorno mi ha cambiato la vita. Forse lei nemmeno lo ricorda, perché un’insegnante ha tanti alunni e ne vede tanti tutti i giorni di tutti gli anni. Io, da quel giorno, tutte le volte che sono entrata in sala, ho scaricato le mie giornate, i miei pesi del passato, del presente e le preoccupazioni del futuro. Da quel momento tutto è andato in avanti e io mi sono ritrovata in prima fila, messa al centro, senza sbagliare nulla e vivendomi tutto al massimo delle mie forze. Poi lei è riuscita a fare un miracolo in più perché è riuscita ad avvicinarmi a tutto quello che prima in palestra mi annoiava. Lei è riuscita a costruirmi un percorso mio, a farmi capire tutto quello che potevo fare, a sfidare me stessa e a poter fare sempre di più.

Davvero lo sport ti può salvare. Non dico che da quando ho scoperto lo sport non ho più avuto periodi no, periodi pesanti e periodi brutti. Ne ho avuti molti. Ma la differenza è stata nel come affrontarli. Ogni volta che sono arrivata in quella sala sono uscita diversa da come ero entrata. I problemi li ho sentiti un po’ più leggeri. Forse ho pensato che avrei potuto sistemare le cose o che tutto sarebbe andato meglio, prima o poi. Lo sport ti insegna che non hai limiti. E che, se li hai, non è una vergogna, non è un problema. Ti devi dare tempo. E li devi anche accettare, i tuoi limiti. Perché siamo umani. Ti insegna che se una cosa non ti fa stare bene non la devi fare. Ti insegna che devi imparare a conoscerti.

Finchè lo sport lo vedi solo come qualcosa che devi fare, quasi come se fosse una medicina, non ti aiuterà. Non ti aiuterà se imposto da qualcuno. Non ti aiuterà se devi incarnare il sogno in cui qualcuno non è riuscito. Non ti aiuterà se non te lo senti cucito addosso. Non ti aiuterà se deve essere una fatica andarci. Non ti aiuterà se non vedi l’ora che finisca o se ti senti a disagio. Non ti aiuterà se non ti senti a Casa.

Lo sport ti può salvare. Tutte le volte che in passato sei crollato, che hai avuto momenti bui, che hai preso direzioni sbagliate, oggi che c’è lo sport, oggi che hai imparato a farlo essere parte della tua vita, impari che appena stai prendendo la strada sbagliata, appena stai reagendo nel modo errato ai problemi, lui ti dice: “Sono qui per te. Prenditela con me, ma non con te stessa. Non farti più male.”

Grazie a Marianna Camelia per le foto. Abbiamo imparato a volerci bene parlando di sport.

Settembre, un nuovo anno

Un anno. È passato un anno da quando ho strappato quel biglietto aereo, disdetto il pre-contratto per la casa e detto all’azienda che no, quel contratto di lavoro lo riconsegnavo senza firma.
Ci ho pensato spesso durante quest’anno e, più di tutto, durante quest’estate, in un uno dei periodi più difficili.
Quando fai una scelta nella vita è inevitabile che tu ti chieda spesso come sarebbe andata se avessi scelto al contrario. Solo adesso ho capito che è giusto chiederselo, ma non troppo.

Quest’estate ho rivissuto tutto di un anno fa. E riviverlo non è sbagliato, anzi, serve per superare tutto. Per riiniziare bene.
Crescendo ho imparato che la vera fine dell’anno è agosto, non dicembre. Ferragosto è un po’ come Capodanno. Perché lo senti che passato quel giorno l’estate sta un po’ finendo. Agosto è il mese in cui tracci il bilancio dell’anno appena trascorso, e ti prepari per quello nuovo a Settembre.

Io me lo ricordo un anno fa. Me lo ricordo bene.
Ero innamorata. Non come le altre volte, era diverso, anche se non sapevo spiegare come. Insomma, quando incontri una persona e pensi sia stata cucita su misura per te. Ero felice. E nel conoscere quella felicità mi ero resa conto che io felice non lo ero stata mai nella vita.
Di quelle persone che conosci per caso, proprio quando tu con l’amore avevi detto “basta”. Insomma ero felice. Anche quando le giornate andavano storte. Anche quando tutto il resto non andava.
Ricordo che facevo tanti lavori “perché dovevo”. Solita storia di molti, no? Devi arrivare a fine mese in qualche modo. Da sempre in realtà. La differenza è che, forse, prima un po’ mi era pesato. Poi avevo incontrato lui e di colpo il mondo era diventato leggerissimo, una piuma! Insomma avete presente quando guardate quei film, o leggete quei libri, e pensate che quelle cose a voi non capiteranno mai? Che forse nemmeno esistono? Ecco Giorgio Faletti diceva: “Ci sono cose che sembrano possibili solo nei film. Nessuno sa che a volte finiscono nei film proprio perchè sono già successe nella realtà”.
Io lo stavo vivendo. E non una favola attenzione, le favole non hanno senso. Ha senso la vita reale. Fatta di litigi, incomprensioni, sfuriate, fare finta di odiarsi per poi amarsi più di prima. Insomma la vita vera. Cucini, pieghi un pigiama, fai colazione, lavi i piatti, fai la spesa, aspetti che stacchi da lavoro per raccontarsi tutto, piangi, urli, ami. La vita vera. Quella quando decidi in due, e serenamente, che forse per mangiare in quel locale aspettate il mese prossimo, che in questo siete già entrambi con i soldi contati. Perché tanto a casa state benissimo. Oppure uscite, sì, ma per un panino al volo. Che tanto non vi manca niente lo stesso. La vita vera. Quella che se tu hai un problema, quel problema è anche il mio. E se posso ti do una mano, sennò ti abbraccio e basta.

Io me lo ricordo ancora quel giorno. Il giorno in cui un mio ex professore mi chiama e mi dice che c’è questa opportunità. C’era quest’azienda importante italiana, che stava aprendo una sua nuova sede in una città all’estero. C’erano solo due posti nel settore mio, attinente alla mia laurea. Penso: “lo faccio o no il colloquio?” Prima mi dico “ma che lo faccio a fare? Figuriamoci se su mille persone tra quei due posti prendono me”. Poi però decido di mettermi alla prova. Non perché quel posto lo volessi ottenere per forza, ma perché volevo vedere dove le mie capacità potessero arrivare.
Sono sempre stata così io. Mi ricordo ancora quando appena finiti gli esami di maturità presi un aereo di nascosto dai miei genitori e volai a fare i test d’ingresso per una delle Università che sognavo, un po’ lontana e che non avrei mai potuto permettermi in quel momento. Però volevo farli lo stesso quei test. Anche in quel caso, non mi interessava prendermi quel posto, mi interessava sfidare le mie capacità. Lo feci.
E feci anche il colloquio l’anno scorso. Ricordo che quel colloquio fu stranissimo. Come sempre mi ero preparata al meglio, per forma e presenza, per poi finire in un disastro totale. La solita Bridget Jones, come mi chiama mia madre. Feci delle brutte figure assurde, inciampai nella mia solita spontaneità con cui faccio a botte spesso. Quando finì pensai a tutte le stupidaggini che avevo detto, a tutte le parti di me che non so contenere e mostro inconsapevolmente. E che non sono proprio la forma ottimale in questi casi. Poi non ci pensai più, continuai la mia vita normalmente.

Pochi giorni dopo vengo contatta: esito positivo del colloquio, più tutti i dettagli qualora avessi accettato. Capito? Presa. Ero stata presa. Scelta. Proprio io. La Bridget Jones.
C’era tutto in quella possibilità che la vita mi stava dando: un contratto per un lavoro sicuro e fisso (che qui probabilmente non otterresti mai), uno stipendio dignitoso e, soprattutto, la possibilità di poter vivere in un’altra città dimenticando la mia. Tutto quello che avevo sempre desiderato. Tra un mese esatto da quella telefonata sarei dovuta partire. Il primo di settembre iniziava praticamente tutto.
Mi davano qualche giorno per pensare. Chiusi il telefono nell’incredulità e nella confusione più totale. Lavoro fisso e amore vero. La vita me li aveva mandati entrambi insieme, nello stesso momento. Solo che l’uno escludeva l’altro. Cosa avrei dovuto scegliere?
Passai i giorni a pensare. Il lavoro mi avrebbe dato tutto quello che avevo sempre desiderato. Ma lui, quel lui, era stata la cosa più bella di tutta la mia vita.

Me lo ricordo ancora il giorno che glielo dissi. Era molto contento per me, insomma finalmente la mia vita sarebbe potuta cambiare e finalmente era arrivato ciò che desideravo da sempre. Mi disse.
La prima volta rimasi sconvolta. Ebbi l’impressione che non gli importasse nulla di perdermi. Per fortuna si rese conto da solo che quello non era il modo giusto di “proteggermi” allontanandomi da lui. Non puoi decidere tu al posto del cuore. Credo se ne rese conto. Perché poi lasciò parlare solo lui, il cuore intendo.
Lui era distrutto quanto me. Perderci ci faceva male. Che senso aveva la vita nell’averci fatto incontrare per poi dividerci? Cosa voleva dimostrare? A quale prova ci stava sfidando? Anche perché lei, la vita, lo sapeva bene che non avremmo mai potuto gestire una storia a distanza. In primis perché io non ci credo e non ne uscirei viva. In secundis perché anche lui, come me ma per cose diverse, aveva una vita stra complicata che non gli avrebbe mai permesso spostamenti.

Me lo ricordo agosto dell’anno scorso. Me lo ricordo bene. Il mese più bello e più brutto della mia vita. Dopo quei pochi giorni che mi avevano dato per decidere dovetti dare una risposta. Parto. Mi trasferisco. Avevo deciso così. Non potevo lasciare andare quell’occasione per amore, no? Com’è che si dice in questi casi “l’amore va e viene”, e poi “pensa prima a te stessa”. Le solite frasi, no? Quelle giuste.
Iniziai a fare il biglietto aereo. Affittai la prima casa nella quale sarei andata a stare, in attesa di sistemarmi meglio. Cominciai a sistemare le cose qui per lasciarle al meglio. E pian piano lasciai anche i lavori che facevo qui. Nulla era facile in quei giorni. Ogni passo verso settembre era quasi un incubo. Alternavo momenti. Magari quando io e lui litigavamo, o notavo i suoi innumerevoli difetti, o mi rendevo conto delle difficoltà che avevamo e delle distanze che c’erano tra noi, pensavo “ma per cosa dovrei restare? Faccio bene a partire”. Altre volte, invece, quando eravamo insieme mi rendevo conto che non mi mancava nulla, e che nulla di meglio avrei voluto in quei momenti. E quindi era una lotta. Lotta che mi portava alcune volte a decidere di non sentirlo più e chiudere, così ci trovavamo avvantaggiati per il giorno degli addii, che li odio pure. Ma poi non duravamo. E il giorno dopo eravamo di nuovo lì, abbracciati. E si stava bene. Un sacco di volte ci capitava di fermarci un attimo ed avere gli occhi lucidi, insieme. Me lo ricordo ancora quella volta in cui ci guardammo un po’ più del previsto, senza dire una parola ma dicendo ugualmente tutto. Ma per una volta, finalmente, lui non stava lasciando me ad interpretare e lo disse: “non partire. Devi guardare il film ‘The family man’ se non l’hai mai fatto.” Mi spiegò il film, io gli dissi che lo conoscevo a memoria. Continuò a spiegarmelo ugualmente. “Rischiamo di perdere noi. Dopo tutto il tempo che abbiamo impiegato per trovarci.” Disse così. Per me fu bellissimo. E forse era anche quello che volevo sentirmi dire. C’era stato spesso silenzio e tremavo all’idea che in fondo perdermi per lui non fosse poi così brutto. Levò i dubbi. E li levò sempre da quel giorno in poi.

Ogni tanto mi capitava di essere davanti il computer con la tentazione di disdire tutto. Al diavolo i soldi spesi. Al diavolo i lavori lasciati. Però poi non ci riuscivo. Avevo paura di perdere un’occasione.
E poi accadde, due giorni prima di partire, mi ero resa conto che non avevo nemmeno iniziato a preparare la valigia, una grande di quelle dove devi mettere dentro tutto il possibile perché non sai quando avrai le prime ferie e potrai tornare. E quando presi quella valigia mi resi conto che mi girava la testa. Che mi veniva da vomitare. Io stavo facendo una forzatura su me stessa, partendo. Io volevo stare con lui. Volevo noi. Seppur pieni di difficoltà, vite entrambi complicate, traumi da superare a vicenda, e difetti da incastrare. Noi ci riuscivamo. Ad incastrarci. Sì, al diavolo tutto. Strappai il biglietto aereo, feci la disdetta per la casa e telefonai all’azienda: “rinuncio al lavoro” gli dissi.
A lui non lo chiamai subito, resistetti. Erano giorni, gli ultimi, in cui si era chiuso in un silenzio di rassegnazione. Immaginarlo pensieroso e triste mi faceva male ma volevo fargli una sorpresa. Da film quasi. Se la meritava. In effetti per farmi restare aveva fatto di tutto. Perfino colloqui di lavoro qui al posto mio. Gli chiesi di vederci quella sera, per salutarci ed evitare di farlo in aeroporto. Nel frattempo gli scrissi delle lettere, nelle quali gli dicevo che sarei rimasta, e le misi dentro dei palloncini che poi attaccai lungo la staccionata nel punto dove ci eravamo visti la prima volta.
Quel giorno gli mandai un messaggio, e gli chiesi di salutarci lì. L’ultima volta come la prima. Poi mi nascosi e lasciai la mia migliore amica ad aspettarlo. Io potevo vedere lui da lontano, ma lui non poteva vedere me. Lo immaginavo con le mani tremanti leggere quelle lettere, e speravo nella sua felicità. Ci fu. Alla fine fu bello. Anzi fu bellissimo.

Insomma questa è la storia. E non vi aspettate un lieto fine, perchè non c’è. Dopo un po’ ci lasciammo. Non era previsto. Va beh, non è mai previsto quando ami, no? Ad oggi non so dire se fu giusto così. Combinammo un casino dietro l’altro e, anziché capire come risolverli, li incasinavamo di più e ne producevamo altri. Insomma ad un certo punto tutto sembrò irrecuperabile. E poi cominciammo a sbagliare i tempi. Quando volevo recuperare io lui era assente. E quando sembrava voler recuperare lui ero assente io.
Se fu facile? No. Ma non glielo dissi mai.
Fu difficile perché qui poi non avevo più niente, ormai. E quindi dovetti ricominciare. Inventarmi qualcosa. Come molte altre volte nella vita, ancora.

Ho passato molto tempo durante quest’anno a chiedermi come sarebbe stata la mia vita se fossi partita. Soprattutto nei momenti di difficoltà, quando la mia vita mi stava stretta, o quando ho incontrato le persone sbagliate, o quando mi sembrava che la ruota per me non volesse girare mai.

E poi c’è stata quest’estate. Uso questo tempo verbale perché ormai possiamo dire che siamo alla fine.
Ho rivissuto tutto come se fosse oggi.
Poi mi sono presa un po’ di tempo per pensare. Ho colto segnali e finalmente ho capito. Molto.
Ho capito che qualunque scelta facciamo ci faremo sempre delle domande sulla scelta opposta. Forse se fossi partita avrei avuto una vita migliore, o forse no. Chi può dirlo? Chi può saperlo? Nessuno. L’unica certezza che ho è che, se avessi fatto la scelta opposta partendo, mi sarei comunque fatta delle domande chiedendomi come sarebbe stato se fossi rimasta a vivermi quell’amore e quella felicità vera.
E poi, non avrei vissuto tutto quello che ho vissuto quest’anno e che, nel bene e nel male, mi ha dato tantissimo.
Ad esempio non avrei mai iniziato a fare il mestiere che poi in effetti ho fatto: scrivere. Il mio sogno. La mia vita. La cosa che forse mi riesce meglio. Non avevo mai pensato che avrei potuto scrivere ed essere pagata. Poco o tanto, per un tempo più o meno lungo, non importa. Non importa se lo farò ancora o se un giorno non potrò più farlo. Quest’anno l’ho fatto. E non solo: ho scoperto altri lati di me e fatto esperienze incredibili!
E poi sono stata a capo di un gruppo di ragazzi fantastici, “i miei ragazzi” come li definisco io quando parlo agli altri di loro.
Ho fatto anche dei viaggi bellissimi, visitato nuovi posti e riscoperto altri. Penso, ad esempio, a Parigi e Strasburgo.
E poi sono stata a fianco di Salvatore Borsellino, il fratello del giudice Paolo, un’esperienza che non dimenticherò mai.
E ancora, ho letto per la prima volta le mie poesie su un palco, con un microfono ed un pubblico a fissarmi.
Ho conosciuto tantissime persone nuove quest’anno, ed altre le ho conosciute meglio. Molti mi hanno deluso, molti si sono rivelati dei grandissimi bluff, altri ancora delle scoperte stupende.
Ho fatto molti errori quest’anno. Ed ho fatto alcune scelte che, col tempo, si sono rivelate sbagliate: o c’era anche per quelle un motivo? Chissà.
Sono stata molto male in molti momenti, ma ancora una volta sono cresciuta, mi sono ancora di più fortificata. Lottando ogni giorno per evitare che queste delusioni possano farmi cambiare e chiudere il cuore alle emozioni. Cercando di restare sempre quella che sono.

Quello che so è che non rimpiango nulla. Ma questo l’ho capito solo adesso, alla fine dell’anno. Quando ho tracciato il mio bilancio. Non rimpiango il biglietto strappato l’anno scorso. E a chi ridendo mi ha sempre detto “ma dai l’hai fatto per amore?”, “ma dai non vedi che alla fine è finito?”
Sì, è finito. Va bene così. Doveva andare così. Forse un giorno capirò il perché, capirò che è stato meglio. Forse un giorno arriverà qualcuno che riuscirà ad amarmi di più. Vivrò qualcosa di più bello ancora. Mi sentirò di nuovo a casa. Protetta, coccolata, amata. E allora penserò che doveva andare così. Magari invece non arriverà ma sarò felice lo stesso. Con la vita che giorno per giorno mi costruisco. Tra sacrifici e impegno.
Io quel biglietto dovevo strapparlo. Non per fare un favore a qualcuno. Non perché sono stata costretta. Non perché ci ho pensato poco. L’ho fatto perché ero felice. In quel momento quella era la cosa che più mi rendeva felice. E quando fai qualcosa per la tua felicità non è mai un errore. Ora lo so.

E so anche che quest’estate mi ha portato novità, proposte e nuove scelte da fare. Ed io mi sono presa anche questa volta il tempo per decidere e capire. E l’ho fatto, scegliendo quello che sembra più giusto in questo momento. Perché c’è un tempo giusto per tutto. E le scelte che ho preso mi aspettano a settembre. Con nuovi cambiamenti.
Non so ancora cosa la vita ha in serbo per me. Non so tra un anno cosa scriverò nel mio nuovo bilancio. Ma so che sono pronta per una nuova pagina bianca, tutta da scrivere. Buon anno!

Gli odori della nostra vita

Ci sono odori e profumi che non possiamo dimenticare, nemmeno a distanza di mesi o anni. Perché sono gli odori che hanno fatto da colonna sonora ai momenti più importanti della nostra vita.

Quando ci riferiamo a questo tipo di odori, non intendiamo il profumo in sé, cioè quello confezionato che ogni persona usa. Anche se è vero che spesso amiamo il profumo che qualcuno indossa, e ci capita di risentirlo negli altri o semplicemente in giro, quello di cui parliamo è un altro tipo di profumo.
È un odore che non si sente soltanto con il naso, con l’olfatto. È un odore che si sente con la pelle, con gli occhi e con l’anima. Sono quei profumi che ti entrano dentro, senza che te ne accorgi, e poi ti restano. Sono i profumi che più ti scombussolano, che ti provocano emozioni, belle o brutte che siano. Che ti evocano ricordi e ti fanno rivivere costantemente lo stesso momento di quando l’hai sentito.

Questo tipo di profumo non sempre ha una spiegazione. Tu cammini per strada, senti un profumo e lo colleghi a qualcosa. Non sempre focalizzi subito cosa. A quanti di noi è capitato di dire “mi ricorda qualcosa ma non so cosa”. Ecco. Non sempre un profumo è immediato. Non sempre l’associazione è chiara. Magari dentro di voi quell’odore è entrato, e li è rimasto, ma senza che voi ve ne siate accorti. O forse l’associazione è dolorosa, il ricordo di quel momento o di quella persona lo è, e allora inconsciamente lo rimuovi, non lo accetti, non vuoi sentirlo. Il più delle volte questa lotta interiore con noi stessi è inutile. Un odore ti entra dentro e lì resta.

I primi profumi che ricordiamo sono di solito associati a periodi della nostra infanzia. Penso che ognuno di voi ha il suo, o anche di più.
Io il primo che ricordo lo associo a mia nonna. Che poi è la persona che mi ha cresciuta. Una mamma. Ed è quello della salsa. Ne associo molti altri a lei, ma questo è quello più forte. Si alzava prestissimo per farla. Il profumo saliva su per le scale, oltrepassava due piani. Non ho più conosciuto nessuno che facesse la salsa come mia nonna. Io poi nemmeno ne mangio. Mangiavo la sua però. La mangiavo non con la bocca ma col naso, quasi. Anche mia madre a casa la faceva, ma non era come quella di nonna. Nessuna salsa lo è mai più stata. Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di magico in quel sugo. Forse era la combinazione perfetta del sale e dello zucchero. O forse i pomodori che sceglieva con cura. O forse quel modo di girarla alla perfezione, mentre per la casa riecheggiava il borbottio della padella scoppiettante. Io nemmeno arrivavo ai fornelli, piccola com’ero. E poi a nessuno era permesso mettere le mani mentre la nonna cucinava, la salsa soprattutto. Però io ero speciale, a me lo permetteva. Per aiutarmi ricordo che prendeva una sedia, mi aiutava a salire e finalmente la mia altezza combaciava con i fornelli. Mi dava il mestolo e avevo il permesso di girarla. Nel senso in cui mi diceva lei, correggendomi quando sbagliavo il senso o l’andatura.

Ai nonni penso che i nipoti associno un sacco di odori. Mio nonno ad esempio, appena il giardiniere andava via, mi prendeva per mano e mi portava in giardino. Ci sedevamo sull’erba, lì in campagna e mi diceva di respirare. Si sentiva l’odore dell’erba appena tagliata. Non credo amassi particolarmente la campagna io, sono sempre stata più un tipo da città, fin da piccola, però il nonno riusciva a farmelo amare quell’odore. Mi diceva che era l’odore di rinascita. Il prato tagliato era la metafora della vita: quando qualcosa non va più bene non si può restare immobili né aspettare, bisogna fare qualcosa. Si taglia la parte che non va bene, ma non si toccano le radici, la parte più vera e profonda di noi stessi. E come il prato riprende a respirare, anche noi possiamo riprendere a farlo. Non saprei dire se da grande sono stata così brava a rispettarla questa metafora. Ma so che l’odore è rimasto.

Però gli odori non sono soltanto così specifici: salsa = nonna, erba = nonno. Di questi possiamo averne a migliaia. Tanti odori che associamo ad una madre, ad un padre, ad un familiare caro o ad altri. Io in realtà non mi ero mai soffermata a pensare agli odori. Ho iniziato quando ne sentivo uno e non sapevo spiegare quale fosse. Mi riferivo al profumo dell’estate. Io questa stagione non l’ho mai amata particolarmente, amo il mare sì, ma non ho ricordi belli e importanti collegati. Quando è arrivata ho iniziato a guardarmi in giro, mi sentivo circondata da odori. Senza nulla di specifico. E li associavo tutti ad una persona. Che fa parte del passato. Che non fa più parte della mia vita, ma che ha reso per la prima ed unica volta nella mia vita, un’estate speciale. Forse perchè odorava di felicità, di sentirsi amata, finalmente. Allora mi sono accorta che ogni tratto d’estate, ogni raggio di sole, ogni luce di luna, ogni sera stellata, ogni frastuono di bambino e di vita fino a tardi me lo ricordava. È stato lì che ho capito che un odore può essere qualcosa di indefinito. L’odore di una stagione, senza nulla di specifico ma tutto che si associa.

Così mi sono interrogata. Ho iniziato a riflettere sugli odori indefiniti e non specifici. E mi sono accorta che sono un sacco quelli che possiamo associare.
Ad esempio c’è l’odore dei fallimenti. È l’odore di quando volevi far qualcosa ma non hai potuto, di quando ci credevi ma non è andata. L’odore di quando non ci sei riuscito.

Poi c’è l’odore della rabbia. Quando sei così arrabbiato con il mondo che vorresti spaccarlo tutto, pezzo per pezzo. Quando sei così arrabbiato che quasi non respiri. L’odore di quando vorresti urlare piangere e colpire un muro. E invece quella rabbia è così grande che non riesci a fare nulla. Quel dolore che se ne sta lì, immobile dentro di te. Ecco, l’odore del dolore. Il più forte di tutti, quello che ti resta dentro l’anima. Non credo esista un solo odore per il dolore.
Il dolore, di solito, è collegato ad un momento o ad una persona, e avrà un odore che non sarà uguale per ogni brutto momento o per ogni persona che ci ha fatto male. Però il dolore è universale. Il petto che si spacca, le gambe che vacillano, il cuore preso e frammentato. È quello. L’odore di quando credi di non farcela. Di non potercela fare. L’odore del vuoto che ti resta dopo, quando il dolore ti cambia. Ti svuota e ti fa chiudere alla vita. Anche se non glielo dovremmo permettere. Anche se dovremmo ricominciare ogni giorno come se non avessimo mai sofferto, ma non si può.
L’odore della rabbia, del dolore, della paura. Figli della stessa madre.
L’odore dell’abbandono. Non ti ho trovato più.

E poi c’è l’odore del tempo. Quando la vita ci scappa tra le mani e ci sentiamo in ritardo. Come sei arrivato fino a qui? Di già? Avevi tanti progetti, tanti sogni, dove sono finiti? L’odore del tempo che corre. Che non si ferma. Che non ti aspetta. I rimpianti ed i rimorsi. “Avrei potuto dire, avrei potuto fare”, “e se…”. E mentre pensiamo a tutto quello che non è andato, a tutto quello che avremmo voluto fare e non abbiamo fatto, a tutti gli errori commessi, il tempo continua a passare. E noi ne perdiamo dell’altro.

E poi ci sono i due odori più importanti: quello dell’oggi e quello del domani.
L’oggi profuma della mia migliore amica. Lei ha tutti i profumi della mia vita. Odora di pollo al curry, di cocco e di vaniglia. Ma odora anche di Casa, di un porto sicuro, di notti tra lacrime che diventano sorrisi. Odora di mani che ti tengono. Di abbracci sentiti, pochi. Ma forti. Odora di cose mai conosciute e d’improvviso scoperte. Di fiducia. Di rispetto. Di ritorni. Di litigi e di pace. Odora di famiglia, di chi puoi contare, di chi c’è. Odora di silenzi, che non pesano perché sanno già parlare. Odora di serenità. Di racconti complici mettendo a nudo tutta te stessa. Lei ha tutti gli odori che sento in giro. Odora di Vita. Odora di Amore, qualunque forma sia.

L’odore del domani non lo conosco. Nessuno di noi lo conosce. Mi piace pensare che sia un odore bello, che la felicità si farà sentire. Che non può girare sempre contrario il vento. Ma se così dovesse essere va bene anche perché, alla fine, gli odori che ci hanno fatto più male sono anche quelli che ci hanno reso così forti come siamo oggi.
Siamo chi siamo più per il dolore vissuto che per le cose belle, e se impariamo a pensare che tutto accade per un motivo possiamo accettare qualsiasi vento contrario.

Salvare i rapporti, ma in due

Prima di stremarvi nel salvare un rapporto ponetevi una sola domanda: lo volete in due? Perchè, sia chiaro, non riuscirete mai a salvare un rapporto da soli. Potrete provarci, certo, e tutte le volte che vorrete. Ma da soli non riuscirete nell’impresa. Qualcuno potrebbe obiettare dicendo che ci sono persone che da sole hanno salvato rapporti. Falso. Percezioni distorte. Vi spiego il perchè. C’è sempre, o molto spesso, una delle due persone di un rapporto che si trova più in grado di tenere l’altro. Ci sono persone che sono portate a scappare, magari per ferite, traumi, paure ingestibili, insicurezze. Il più delle volte non è fatto con cattiveria o con mancanza di amore, ma questo sta nella sensibilità e nell’empatia dell’altro riuscire a capirlo. Se l’altro lo capisce vi tiene, in maniera stretta. Più stretta possibile. Perchè se non lo facesse la probabilità più ovvia sarebbe quella di mettere fine a quel rapporto. Bene, a questo punto qualcuno dirà che questa persona è l’unica ad aver salvato il rapporto. Ripeto: falso. Questa persona è semplicemente quella che ha messo i mezzi più giusti, e forse un piccolo sforzo in più. Ma i rapporti si salvano sempre in due. Infatti, riesci a tenere stretta una persona se quest’ultima vuole essere tenuta. Il più delle volte vuole proprio questo, qualcuno che nel momento in cui ti viene da scappare ti sappia tenere. Stringere. Riflettete dunque dopo questo esempio: chi salva il rapporto in questi casi? Entrambi! In questi casi entrambi vogliono tentare ancora una strada insieme, entrambi non vogliono perdersi, entrambi (ma con modi diversi) cercano di esserci.
A me ad esempio è capitato. Essere tenuta intendo. Anche io ho vissuto rapporti in cui la mia tendenza era quella di scappare. Ovviamente non sono sensazioni che controlli, e a spiegarle magari non hanno nemmeno un senso. Però accade. A volte si scappa quando si sta bene, ad esempio. Il che, lo so, sembra quasi un paradosso.
Qualcuno potrebbe obiettare: se stai bene perchè dovresti scappare? Vi sembrerà assurdo, ma la felicità a volte fa paura. Dipende forse dalla vita vissuta, dalle esperienze, dalle ferite e cicatrici che ci portiamo dentro. Più o meno funziona così: quella felicità l’abbiamo cercata da una vita, la troviamo e vorremmo che non finisse mai. Ma… lì cominciano i pensieri, ingestibili: e se finisse? E se starò di nuovo male? Allora a quel punto pensiamo che sia meglio darsela a gambe levate, di corsa! D’altronde, che ne sappiamo noi della felicità? Che conseguenze porta? Dov’è il foglietto illustrativo che ci spiega gli effetti collaterali e indesiderati? Non c’è.
Ma torniamo al nostro discorso: salvare i rapporti. Provateci. Fatelo. Tutte le volte che vi sembra necessario. Tutte le volte che sentite qualcosa in sospeso. Magari un rapporto si chiude, ma solo apparentemente, mentre dentro di voi non del tutto. Ci sono stati problemi, incomprensioni, litigi, discussioni, e chi più ne ha più ne metta. Siete arrivati a pensare che quella potesse essere la persona più sbagliata sulla faccia della terra. Avete sbattuto le mani sul volante ripetendovi “ma chi me l’ha fatto fare?”

E ancora, quante volte avete pensato che incontrare e innamorarvi di quella persona fosse stato l’errore più grande della vostra vita? Capita. La stanchezza, la rabbia, i dubbi portano a pensare e dire di tutto. Siamo umani e siamo fragili. E so che spesso essere fragili non ci piace. Ma forse è proprio quella una delle parti più belle di noi.
E dopo tutto il cielo grigio, la tempesta, la pioggia e la grandine chiunque spera di affacciarsi sul balcone e trovare un arcobaleno. O almeno un raggio di sole. Anche timido. In lotta con le nuvole. Proprio come in lotta lo siete dentro voi stessi. Fermatevi un attimo a pensare: perchè quel rapporto è nato? Avete passato bei momenti? Avete vissuto forti sensazioni? Se la risposta è sì fate bene a volerci riprovare, a voler fare altri tentativi.

Provare emozioni è raro. Il più delle volte ci si sente apatici e annoiati. Un cuore che batte, un sorriso la mattina e uno prima di addormentarvi. E un altro ancora, fisso durante tutta la giornata. L’avete trovato? Non perdetelo. Non cullatevi nel pensiero facile che tanto arriverà qualcun altro a farvi riprovare le stesse sensazioni. Non funziona così. L’amore è qualcosa di raro. Quindi sbracciatevi e mettetevi di buona volontà: come facevano i nostri nonni, che prima di buttare un rapporto ci pensavano tantissimo. Volte su volte. Uno scrittore diceva: “se si tiene a qualcosa, l’ultimo tentativo è sempre il penultimo”.
La conoscete questa scultura?

Si chiama “Amore”, ed è dello scultore Alexander Milov.
Raffigura un uomo e una donna, ormai adulti, che si voltano le spalle, ma il loro bambino interiore vuole soltanto avvicinarsi all’altro e amare.
L’opera rappresenta un conflitto tra un uomo e una donna. La loro interiorità è rappresentata da bambini trasparenti che cercano di toccarsi. Al calare della notte, i bambini si illuminano all’interno della scultura. Questo brillare è un simbolo di purezza e sincerità, e rappresenta la possibilità delle persone di riavvicinarsi e unirsi dopo un periodo buio.
L’opera rappresenta un vero e proprio inno all’amore che abbiamo dentro di noi ma che spesso per varie ragioni rimane intrappolato e inespresso. I due personaggi adulti vengono rappresentati come chiusi in se stessi attraverso la simbologia della grata. Grazie alla luce il loro bambino interiore e l’amore cercano di riemergere, i due bambini tendono le mani per ritrovarsi e ricongiungersi.
L’artista coglie il lato più vero e fragile dell’amore: la chiusura, il distacco.
Da un lato viene rappresentato il conflitto, che elimina ogni forma di contatto e dialogo; dall’altro due bambini, letteralmente chiusi nel corpo degli adulti, tendono le loro mani l’uno verso l’altro, in cerca di un contatto.

Provate. Tentate. Parlate, guardatevi. Fidatevi degli occhi, quelli non sbagliano mai. Se scappa un sorriso, vuol dire che siete ancora in tempo. Se vi riconoscete, vuol dire che non vi siete mai persi.
Attenzione però: ponetevi dei limiti. E qui ritorniamo al discorso iniziale. Dovete ragionare in due, non da soli. Che significa? Che tutto quello di cui abbiamo parlato fino ad ora dovete volerlo in due. Se questo non accade, fermatevi. E per consiglio, non impiegate mesi e mesi a logorarvi. Non serve. La vostra maturità e la vostra forza si trovano anche in questo: capire quando è il momento di andare via.
Le esperienze di vita passate ci devono servire, altrimenti la vita non ci avrà insegnato niente e noi non avremmo imparato nulla. Per questo dovete essere forti, stavolta ancora più forti delle altre volte. Fate il massimo per recuperare un rapporto. Fatelo perchè domani possiate guardarvi allo specchio e sentirvi sicuri di aver fatto il possibile. Non preoccupatevi di perdere l’orgoglio, e lasciate stare il giudizio degli altri.
L’amore è una cosa troppo preziosa e delicata per lasciarlo andare per vocaboli che in amore non servono.
Provate fino all’ultimo. Voi nell’amore che avete provato ci credete? Per voi è stato importante? Provate, allora, a salvare quel rapporto.
Urlatelo, ditelo, scrivetelo. Scegliete voi la forma che più vi si addice. E poi guardate l’altro: c’è? Se la risposta è sì, provate ad uscire insieme dalle macerie nelle quali vi siete cacciati da soli con quel grande casino che si chiama “Amore“. Magari non funzionerà di nuovo, magari durerete due giorni o tre. Non importa. Non vi porterete rimpianti e avrete sempre scommesso e lottato per amore. Ricordatevi che gli amori facili non esistono. Ricordatevi che l’amore più è complicato, più ti batti per esso, più è vero. I momenti bui a volte servono, si esce da essi diversi e si è pronti a riiniziare daccapo. Senza colpe e rancori.
Ma se l’altro non c’è allora non affannatevi, non incolpatevi, non logoratevi. Da una parte l’amore è finito. Non accettate nessun’altra spiegazione. Perchè, ricordatelo, finché c’è amore si lotta. Dunque l’amore da una parte è finito. Non è la vostra parte e questo fa male. Non fa nulla, il dolore insegna e fortifica. Ma non potete costringere qualcuno ad amarvi, mai. E voi meritate altro. Magari questo dolore serve ed ha un motivo. Magari per voi c’è altro che vi attende. Perciò non restate fermi al gelo davanti ad una porta che non apre. Prendete la vostra valigia, guardate avanti e non voltatevi più.
Il domani, per voi, è tutto da scrivere.

Famiglie divise e in conflitto: l’importanza di far vivere un Natale sereno ai bambini

Il Natale è per molti la festa più bella dell’anno ma, sebbene un adulto possa viverla in maniera distaccata per innumerevoli motivi, i veri protagonisti di questa festa sono loro: i bambini.

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