Quei libri

Quella libreria era lì, davanti a me, che chiedeva solo di essere aperta, sfogliata. In quel mobile a vetri loro, i libri, si nascondevano, apparendo a tratti.

Mi assomigliavano, nel desiderio della riservatezza, nella protezione delle cose personali, nel bisogno di stare al sicuro, al riparo. Erano messi lì, visibili e non visibili, immobili, ad aspettare che le mani giuste li sfiorassero appena. Per lasciarsi tenere, conoscere, scoprire, sfogliare, solo dalle mani giuste.

Li avevo visti lì tante volte, erano sempre stati lì. In quella casa così grande gli avventori, arrivisti, egoisti, spietati, si guardavano intorno con aria avida. Nella loro ricerca del più costoso, raffinato, ricco e promettente oggetto io guardavo lei. Quella libreria, camuffata da vetrina, chiusa a chiave. Chi aveva lasciato quei libri doveva pensarla come me, altrimenti non li avrebbe protetti così tanto come il più prezioso dei tesori.

Eppure ero passata tante volte davanti a loro, mi ero seduta così spesso su quel divano, avevo gironzolato così tanto per quella stanza. Perché non avevo mai avuto l’istinto di girare la chiave, aprire il mobile e salvare quei libri dall’apparente solitudine e dal tanto criticato silenzio? Perché non ero pronta, a prendermi la responsabilità di togliere qualcosa dal suo posto sicuro, dal suo luogo riparato, dalla dimensione che avevano scelto.

Me le ricordo le critiche di chi avrebbe voluto spostarli, trovargli il posto migliore o peggiore, secondo proprio gusto. Il gusto di chi? Perché arruolarsi il diritto di giudicare cos’è meglio per gli altri, che non siamo noi? Il custode doveva essersi battuto molto. Sì, ora ricordo le grandi discussioni per lasciare quei libri lì.

Eppure io avrei potuto prenderli, solo io. Ricordo anche questo. Ricordo quando mi dicevi che quei libri erano miei, anche quando non avevo l’altezza nemmeno per sbirciare il primo ripiano. Li conservavi per me, avevi già capito che li avrei trattati bene, protetti, usati per cause nobili, come la necessità di evadere o trarre ispirazione o riflettere o trovare risposte. Mentre tutti mi deridevano, pensando che tu mi avessi destinato la cosa di minor valore, noi seppur distanti ci capivamo.

Io ero più ricca di loro. Ero più in pace. Io, a differenza loro, ero alla ricerca solo di lealtà, rispetto, serenità. Mentre loro contavano affannati gli spiccioli. Che grande pena l’essere umano, davanti al denaro. Ebbene, è arrivato il momento di portarli con me, di regalare loro una nuova casa, un nuovo porto sicuro. Adesso so che gli piacerà, che ci capiremo, che staremo bene. Sono pronta a girare la chiave, ad aprire la vetrina. A tenerli in mano con dolcezza, a sfogliarli con delicatezza, rispetto. Ci sarà tanto valore con me domani, il vostro.

Jack e Phyllis: un esempio d’amore

Questa storia parte dalla città di Rochester, a New York. Ed è una storia vera, non un film, non un libro, non una fiction. Realtà.

Il 4 ottobre 1941, due ragazzi di 17 anni si incontrano durante una festa. Basta un solo sguardo per innamorarsi. Un solo sguardo per capire che quella sarebbe stata la loro fermata.
Jack aveva l’abitudine di scrivere, le sue emozioni, i suoi pensieri, ciò che gli capitava e che meritava di essere scritto. Oggi lo ringraziamo, perché grazie a questo abbiamo conosciuto la storia di questo amore.

Un amore che ha inizio quella sera. Quando, dopo la festa, Jack sul suo diario scrisse: «È stato un pomeriggio fantastico. Ho incontrato una ragazza meravigliosa. Ed ho ballato con lei. Spero di rivederla».

Si perdono di vista, i tempi sono complicati: è in corso la prima guerra mondiale, che stravolge tutti gli equilibri della vita.

L’amore però, quando è vero, ritorna sempre. Puoi percorrere chilometri di distanza, possono passare anni, nel mezzo può accadere qualsiasi cosa. Ma l’amore, quell’amore, torna. Torna sempre. Perché di fronte all’amore non può vincere nemmeno la volontà umana, di allontanarsi, partire, dimenticare. Non puoi. La vita prima o poi ti rimetterà di nuovo a faccia a faccia con l’amore che ha scelto per te. Il tuo. Uno solo.

Il 20 febbraio 1943 Jack e Phyllis si incontrano di nuovo. Si guardano. Nulla è cambiato. Lui le chiede di sposarsi, lei accetta.

Jack fino a 90 e più anni scrive tutto. Annota tutto sul suo diario. Di quella storia d’amore che non ha avuto fine. Piena di attimi felici, certo, ma anche di momenti difficili, in salita, momenti in cui molti altri avrebbero mollato. Lui no, loro no. Si sono impegnati, giorno per giorno, per non far finire la loro storia. Lui mettendoci un pizzico in più di tutto: di fatica, d’amore.

Nel 2008 Phyllis comincia a non stare bene. Si ammala di demenza senile. All’inizio in maniera lieve, poi sempre più grave.

In quel momento Jack soffre in prima persona, come se la malattia avesse colpito lui. Perché Phyllis, spesso, comincia a non riconoscerlo più.

Jack prova a curarla, da solo, in casa. Ma non ci riesce. Così Phyllis viene ricoverata in un centro specifico. Ma il marito non l’abbandona. Né si perde d’animo di fronte alla perdita di memoria, che la malattia comporta, per Phyllis.

Non possiamo nulla di fronte alle malattie, non siamo farmaci, non siamo la scienza. Ma possiamo amare. E, a volte, l’amore è davvero più forte di tutto. Così Jack decide di non arrendersi. E per quanta disperazione sente dentro di lui tutte le volte che lei non lo riconosce, non può accettarlo. Non può accettare che la donna che ama da 70 anni, con la quale ha condiviso ogni giorno della loro vita insieme, abbia dimenticato tutto.

Jack decide che la malattia non avrebbe vinto di fronte all’amore. Sì, avrebbe aiutato Phyllis a ricordare. Anzi, l’avrebbe aiutata a non dimenticare. Non loro, non la loro storia, non la loro vita insieme.

Ci riesce, o almeno ci prova, grazie ai preziosi diari che Jack ha scritto durante gli anni. Con quelli, può raccontare a Phyllis chi sono stati durante i loro 70 anni d’amore.
Nei loro dialoghi, nei loro litigi, nei loro attimi più belli e in quelli più semplici durante i quali hanno vissuto la quotidianità.
Perché Jack non ha mai smesso di scrivere quei diari. Nei quali ha sempre parlato di lei. E di tutte le cose che hanno fatto insieme.

Da 10 anni Jack, ogni giorno, si reca nella casa di cura dove la moglie è ricoverata. Passano il tempo insieme. Lui non l’abbandona un solo attimo. Le parla, le legge la storia della loro vita. Stringendola a sé, quando Phyllis glielo permette, quando non lo vede troppo come un estraneo. E lui stringe più forte in quegli attimi in cui lo riconosce, per provare a fare scorta del calore e del contatto della moglie. Gli serve durante i giorni più duri, i più frequenti. Quando Phyllis non riesce a farsi abbracciare, quando per lei quello non è il marito né l’uomo che ha amato per una vita. Non sa chi sia. Sono proprio quelli gli attimi in cui Jack soffre di più. Gli attimi in cui, spesso, sarebbe scappato. Ma non l’ha mai fatto. Ha accettato, ha aspettato paziente i giorni migliori.

E c’è stato un giorno migliore. Un attimo migliore. Quello in cui Phyllis l’ha riconosciuto. Quello in cui, per un attimo, sono ritornati ad essere Jack e Phyllis. Quello è stato l’attimo che ha dato forza a Jack.

Così, ogni mattina, lui si affaccia nella stanza della moglie. La guarda per un attimo, prima di entrare, sperando che quello sia un giorno giusto. Un giorno in cui essere riconosciuto, o almeno accettato accanto, tra le letture di quei diari. E se così non sarà, se quello non sarà il giorno giusto, non importa. Jack entrerà comunque. Jack ci sarà sempre. Con lei. Per loro.

Ogni giorno Jack e Phyllis rivivono la loro storia d’amore come se fosse il primo.