Sai quando è stata la prima volta che mi sono davvero interrogata su chi fossi per me? Quando eravamo insieme, in mezzo agli altri, e mi voltavo sempre verso di te per cercarti con lo sguardo.
L’altro giorno ho pensato alle prime volte che provavamo a conoscerci, alle prime parole scambiate. Mi piaceva come parlavi, le cose che sapevi, quelle che dicevi. Altre cose non le sopportavo già, però erano di meno. O forse erano di più ma sempre troppo poche di fronte all’Amore. Perché di amore si trattava. Anche quando mi imponevo di non ammetterlo.
E sai un’altra cosa che mi aveva fatto capire quanto contassi per me? Quando ero in piedi accanto a te e speravo ti avvicinassi a me. Ancora me la ricordo la prima volta che goffamente mi hai abbracciata, la prima volta che tra l’imbarazzo e la paura mi hai stretta a te. E lì, altra cosa che mi ha dato da pensare. Perché io non amo il contatto umano, sono difficile. Eppure il tuo non mi aveva dato fastidio, ci stavo bene.
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Come stai?
Quindi mi guardi e ti guardo,
e lì non puoi mentire.
Dimmi, come stai?
Non mi importa sapere come va il lavoro,
e cosa farai domani.
Dimmelo anche, se vuoi.
Ma, di più, vorrei sapere come stai.
Quali pensieri ti portano lontano,
quali ti tieni dentro,
quali non ti fanno dormire,
e quali altri ancora affollano i tuoi giorni.
Ti ascolto in silenzio, se vuoi.
Ti guardo e basta, se vuoi.
L’ascolto e basta la tua vita.
E ci entro piano.
E la rispetto.
E la proteggo.
Come proteggerò te
ogni volta che mi parlerai,
ogni volta che mi darai
anche solo un po’ di te.
Avrò cura di tutto, che sia tu.
Crocetta o “nonostante tutto”
Non ero una ragazza dai gusti facili e, nonostante dovessi ammettere che di ragazzi che mi facevano la corte ne avevo abbastanza, c’era sempre qualcosa in ognuno di loro che non mi andava bene. Alternavo periodi di totale chiusura, durante i quali rifiutavo persino un caffè, a periodi di “prova” se così possiamo definirli, durante i quali se qualcuno mi sembrava interessante magari mi convincevo a tentare un’uscita. Una sola, era difficile che qualcuno con me arrivasse alla seconda. Magari i più fortunati alla seconda o terza, se proprio vogliamo esagerare. Non lo facevo di proposito, non ero una di quelle che se la tirano o con la puzza sotto il naso, e nemmeno una di quelle che ti guardano dall’alto in basso, super viziate che non si accontentano mai. Io, semplicemente, avevo difficoltà a sentire qualcosa per qualcuno. E, soprattutto, avevo una visione troppo grande dell’amore, una considerazione troppo alta. Credo molto nelle sensazioni a pelle, nelle persone che si piacciono e non sanno spiegare il perché, quindi se ho qualcuno vicino ma non sento nulla non riesco a fingere o a portarla per le lunghe. Credo sia per questo che non ho mai compreso la gente che riesce a stare in coppia pur non essendo innamorata, o quelle coppie che stanno insieme per abitudine, o per paura della solitudine. Io, non avendo avuto una famiglia su cui contare, ero sempre stata abituata a cavarmela da sola, e anche quando mi ero fidanzata non mi ero mai “appoggiata” al mio uomo. La paura di ricevere un rinfaccio o, peggio, la paura di sentirmi debole e perduta una volta ritrovata sola mi terrorizzava.
Insomma, io da sola stavo da Dio, non mi mancava nulla! E quando ti senti così, puoi stare con qualcuno solo se quel qualcuno riesce a rendere migliore quella situazione già ottima. La mia più cara amica si divertiva parecchio con me, si era anche inventata una sorta di codice per depennare gli uomini che non mi andavano bene. Il codice consisteva nelle classiche spunte e crocette, come quelle dei test, che ti dicono se il risultato è positivo o negativo. Solo che nel mio caso di spunte lei non poteva metterne mai, e la lista includeva solo crocette. Al ritorno da ogni appuntamento lei era li che mi aspettava: trovavo un suo messaggio con scritto “com’è andata?” e io le dicevo che non era andata bene, e lei mi rispondeva “ok, crocetta”, che nel nostro linguaggio significava depennato.
Le motivazioni che le davo erano la parte che la divertiva di più: quel tipo no perché a tavola stava troppo in silenzio, quell’altro no perché invece parlava troppo; no perché era troppo curato più di una donna, no perché portava una camicia orrenda, e cosi via di seguito. Lei mi definiva “spietata”, anche perché non davo giustificazioni a nessuno e neppure seconde possibilità. Per questo le era stato sempre facile capire quando un uomo mi piaceva davvero, anche quando io non volevo ammetterlo a me stessa. Perchè le uscite diventano più di due, e anche quando c’erano difetti, dubbi e problemi, non mollavo. Non depennavo. Nessuna crocetta. Piuttosto un “nonostante tutto”. L’amore è il “nonostante tutto”.
I ritardi della vita
Lavoravano insieme da qualche mese, eppure prima erano stati innamorati. Ed era stato un grande amore. Finito male. Come tutti i grandi amori. Poi lei si era innamorata ancora, e quando si erano rincontrati lui le aveva proposto di lavorare insieme. Ogni tanto si ritrovavano a parlare, lui la conosceva molto bene e sapeva ascoltarla. Tra di loro era sempre rimasta una grande stima.
«Secondo te perchè non ha funzionato tra noi?» Le chiese all’improvviso.
«Non lo so, credo abbiamo fatto tanti errori.»
«Abbiamo?»
«Beh sì, perchè sono sicura che quando un rapporto non funziona le colpe stanno sempre nel mezzo.»
«No, non credo. Io ho fatto molti più errori, anche se li ho riconosciuti tardi. Ho almeno l’80% di colpe.»
«Dai… il 60%.»
«No no, allora mi prendo il 70 e non ne parliamo più.»
Fecero un sorriso. Erano mesi che lei si rendeva conto di quanto fosse cambiato.
«Sei diventata più matura.» Le disse bevendo il caffè.
«Perché, prima com’ero? Non dicevi sempre che la differenza di età con me non la sentivi?» Gli rispose, alludendo al fatto che lui fosse ben più grande.
«È vero. In passato non l’ho mai sentita la differenza di età con te. Altrimenti, per la vita che faccio, non sarei nemmeno mai riuscito a stare con te.»
«E allora?»
«E allora eri matura, eri responsabile, eri seria, ed eri bellissima. Solo che oggi lo sei un po’ di più. Sembra pazzesco, ma tu cresci e migliori ogni giorno un po’ di più. Ah, e poi non ho più incontrato una donna come te. E temo che non la incontrerò.
Jack e Phyllis: un esempio d’amore
Questa storia parte dalla città di Rochester, a New York. Ed è una storia vera, non un film, non un libro, non una fiction. Realtà.
Il 4 ottobre 1941, due ragazzi di 17 anni si incontrano durante una festa. Basta un solo sguardo per innamorarsi. Un solo sguardo per capire che quella sarebbe stata la loro fermata.
Jack aveva l’abitudine di scrivere, le sue emozioni, i suoi pensieri, ciò che gli capitava e che meritava di essere scritto. Oggi lo ringraziamo, perché grazie a questo abbiamo conosciuto la storia di questo amore.
Un amore che ha inizio quella sera. Quando, dopo la festa, Jack sul suo diario scrisse: «È stato un pomeriggio fantastico. Ho incontrato una ragazza meravigliosa. Ed ho ballato con lei. Spero di rivederla».
Si perdono di vista, i tempi sono complicati: è in corso la prima guerra mondiale, che stravolge tutti gli equilibri della vita.
L’amore però, quando è vero, ritorna sempre. Puoi percorrere chilometri di distanza, possono passare anni, nel mezzo può accadere qualsiasi cosa. Ma l’amore, quell’amore, torna. Torna sempre. Perché di fronte all’amore non può vincere nemmeno la volontà umana, di allontanarsi, partire, dimenticare. Non puoi. La vita prima o poi ti rimetterà di nuovo a faccia a faccia con l’amore che ha scelto per te. Il tuo. Uno solo.
Il 20 febbraio 1943 Jack e Phyllis si incontrano di nuovo. Si guardano. Nulla è cambiato. Lui le chiede di sposarsi, lei accetta.
Jack fino a 90 e più anni scrive tutto. Annota tutto sul suo diario. Di quella storia d’amore che non ha avuto fine. Piena di attimi felici, certo, ma anche di momenti difficili, in salita, momenti in cui molti altri avrebbero mollato. Lui no, loro no. Si sono impegnati, giorno per giorno, per non far finire la loro storia. Lui mettendoci un pizzico in più di tutto: di fatica, d’amore.
Nel 2008 Phyllis comincia a non stare bene. Si ammala di demenza senile. All’inizio in maniera lieve, poi sempre più grave.
In quel momento Jack soffre in prima persona, come se la malattia avesse colpito lui. Perché Phyllis, spesso, comincia a non riconoscerlo più.
Jack prova a curarla, da solo, in casa. Ma non ci riesce. Così Phyllis viene ricoverata in un centro specifico. Ma il marito non l’abbandona. Né si perde d’animo di fronte alla perdita di memoria, che la malattia comporta, per Phyllis.
Non possiamo nulla di fronte alle malattie, non siamo farmaci, non siamo la scienza. Ma possiamo amare. E, a volte, l’amore è davvero più forte di tutto. Così Jack decide di non arrendersi. E per quanta disperazione sente dentro di lui tutte le volte che lei non lo riconosce, non può accettarlo. Non può accettare che la donna che ama da 70 anni, con la quale ha condiviso ogni giorno della loro vita insieme, abbia dimenticato tutto.
Jack decide che la malattia non avrebbe vinto di fronte all’amore. Sì, avrebbe aiutato Phyllis a ricordare. Anzi, l’avrebbe aiutata a non dimenticare. Non loro, non la loro storia, non la loro vita insieme.
Ci riesce, o almeno ci prova, grazie ai preziosi diari che Jack ha scritto durante gli anni. Con quelli, può raccontare a Phyllis chi sono stati durante i loro 70 anni d’amore.
Nei loro dialoghi, nei loro litigi, nei loro attimi più belli e in quelli più semplici durante i quali hanno vissuto la quotidianità.
Perché Jack non ha mai smesso di scrivere quei diari. Nei quali ha sempre parlato di lei. E di tutte le cose che hanno fatto insieme.

Da 10 anni Jack, ogni giorno, si reca nella casa di cura dove la moglie è ricoverata. Passano il tempo insieme. Lui non l’abbandona un solo attimo. Le parla, le legge la storia della loro vita. Stringendola a sé, quando Phyllis glielo permette, quando non lo vede troppo come un estraneo. E lui stringe più forte in quegli attimi in cui lo riconosce, per provare a fare scorta del calore e del contatto della moglie. Gli serve durante i giorni più duri, i più frequenti. Quando Phyllis non riesce a farsi abbracciare, quando per lei quello non è il marito né l’uomo che ha amato per una vita. Non sa chi sia. Sono proprio quelli gli attimi in cui Jack soffre di più. Gli attimi in cui, spesso, sarebbe scappato. Ma non l’ha mai fatto. Ha accettato, ha aspettato paziente i giorni migliori.
E c’è stato un giorno migliore. Un attimo migliore. Quello in cui Phyllis l’ha riconosciuto. Quello in cui, per un attimo, sono ritornati ad essere Jack e Phyllis. Quello è stato l’attimo che ha dato forza a Jack.
Così, ogni mattina, lui si affaccia nella stanza della moglie. La guarda per un attimo, prima di entrare, sperando che quello sia un giorno giusto. Un giorno in cui essere riconosciuto, o almeno accettato accanto, tra le letture di quei diari. E se così non sarà, se quello non sarà il giorno giusto, non importa. Jack entrerà comunque. Jack ci sarà sempre. Con lei. Per loro.
Ogni giorno Jack e Phyllis rivivono la loro storia d’amore come se fosse il primo.
Parlarsi con gli occhi
Come quando
guardi qualcuno
negli occhi,
in silenzio,
e fate dei discorsi
meravigliosi.
Bambini viziati e bambini felici: i regali non possono sostituire l’Amore
Un bambino felice non è un bambino che ha tutto. La felicità non è data dalle cose materiali, e nemmeno dal dire sempre “Sì”. Fare esperienza del “No” è fondamentale per i bambini. Così come lo è apprendere che la felicità, come l’amore, non si compra e non dipende dagli oggetti.
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