Il punto di non ritorno

È sempre stata una mia caratteristica, quella di non buttare i rapporti davanti alle difficoltà, agli ostacoli, alle incomprensioni che sembrano insormontabili. Ho sempre pensato che i rapporti, quelli che sono valsi qualcosa, quelli che per costruirli hai messo fatica e cuore andassero salvati. Nulla di esageratamente forzato, semplicemente seguire quel filo invisibile che non li aveva mai spezzati. Non sono mai stata una che chiude facilmente i rapporti, che li butta davanti ai momenti difficili come se non ci fosse mai stato nulla. Ho sempre pensato che le difficoltà fossero dei segnali che la vita ti manda per mettere alla prova quel rapporto, per vedere quanto sia forte e vero. Ho sempre odiato questa mia caratteristica ma, col tempo, ho imparato ad amarla. Perchè mi fa dosare parole e comportamenti, dando valore ad ogni singola cosa. Amo questa parte di me perchè rispetta i rapporti che sono stati importanti. Perchè ci metto tutto il cuore, e l’impegno. Cerco di migliorare, di imparare dai miei errori e non mi arrendo mai. Non voglio rimpianti, per questo metto in gioco tutta me stessa. Però arrivo fino a quel punto, quello di non ritorno. Quello che, una volta sentito, non mi farà mai più tornare indietro.

Ci siamo insegnati tanto

L’unica cosa che spero è di averti lasciato qualcosa. Ci siamo insegnati tanto a vicenda, non trovi? Tu per esempio mi hai insegnato che farsi aiutare non è un segno di debolezza, e che dove non arrivavo da sola saremmo potuti arrivare in due. Ti ricordi quando non riuscivo a montare quel pupazzetto trovato dentro l’uovo? Sì sembra un ricordo banale, ma è proprio dalle piccole cose che si impara di più. Tu insistevi per ascoltarti e montarlo diversamente, ma io non volevo aiuto, dovevo farcela da sola, come sempre. Ma non riuscivo a montarlo. Alla fine ti sei avvicinato un attimo e l’hai sistemato tu. Non sono portata per le costruzioni sai? Forse nemmeno quelle dei rapporti. Per questo ero così abile a distruggere sempre tutto. Ricordi che te lo dissi una volta, all’inizio, una delle tante in cui io puntualmente scappavo? Ti dicevo sempre di lasciarmi andare. Un giorno ti ho detto «io sono così, non le so gestire le cose belle che mi spaventano, ma sono bravissima a rovinarle». E tu mi hai detto «smettila e lascia fare a me, che le cose belle non è mio uso distruggerle». E ti ho lasciato fare. Per fortuna. Tu avevi questa capacità di tenermi sempre. Stretta. Nel modo giusto. Nel modo per me. Riuscivi a scavalcare tutti i muri che mettevo. Alti, duri, spessi. Insormontabili per chiunque, tranne che per te. Io ti respingevo e tu eri sempre là.
Ah e poi mi hai insegnato a prendere del tempo e a non farci nulla. Ricordi la mia incapacità di rilassarmi? Di riposarmi? Il mio continuo lavorare? Il mio continuo fare? Perché altrimenti pensavo di stare sprecando tempo? Sei stato l’unico che riusciva a farmi passare delle ore senza fare nulla, ad alzarci tardissimo la mattina, o solo a stare abbracciati sul divano. Che poi non è vero che era nulla, era tantissimo.
E io cosa ti ho insegnato? Una cosa la ricordo. Quando preparavamo la pasta che dovevi portarti l’indomani al lavoro, ricordi? Tu la mettevi ancora calda nel contenitore, chiudevi subito ermeticamente e poi la mettevi in frigo.
«Non dovresti farlo» ti ho detto un giorno «il frigo si rovina e poi fa male chiudere i cibi ancora caldi».
All’inizio non mi hai presa sul serio, poi mi hai guardata con scetticismo, infine quella sera prima di coricarci ho visto che la pasta l’avevi lasciata sul tavolo a raffreddare. Non ti ho detto nulla, non mi interessava prendermi meriti, ma ho sorriso.
Come quella sera che non eravamo insieme, mi hai mandato un messaggio e mi hai scritto “amore mi sono preparato il riso da portarmi al lavoro domani, adesso l’ho messo nel contenitore e l’ho lasciato aperto, aspetto che si raffreddi prima di metterlo in frigo… proprio come mi hai insegnato tu”.